domenica 11 maggio 2008

Antigone ovvero la politica del ribelle


Michel Onfray è un filosofo francese, della corrente definita libertaria e antiautoritaria, è un rappresentante della sinistra alternativa, ipotizzatore di un progetto di «capitalismo libertario». Fortemente critico con l’insegnamento della filosofia nelle scuole, solo come storia della filosofia e non come apprendimento del “ragionare filosofico”, metodo logico da utilizzare come strumento di vita. Per Onfray l'onestà intellettuale e la conoscenza del mondo sono strumenti inevitabili, per cui la filosofia deve unirsi alla psicanalisi, alla sociologia e alle scienze naturali per potere fornire delle analisi che siano aderenti alla realtà. Nella sua opera “La politica del ribelle: trattato di resistenza e di insubordinazione” Onfray apre una riflessione sulla politica e sull’ipotesi di una società libertaria. Nella dedica omaggia Nietzsche “Odioso m’è seguire e far da guida” ed apre confessando onestamente “L’autorità mi è intollerabile, la dipendenza insostenibile, la sottomissione impossibile.”
Per Michel Onfray, ogni politica propone un’arte per soggiogare l’individuo e per farne un assoggettato, sfruttando i difetti ed i vantaggi che la persona concede. Il soggetto è sempre soggetto a qualcosa o a qualcuno, per cui l’autorità ama il soggetto sottomesso, tanto quanto odia, teme e detesta l’individuo combattivo. Il soggetto si definisce rispetto all’autorità, in buono o cattivo soggetto, in brillante o mediocre, distinguendo così coloro che cedono al principio di sottomissione rispetto gli altri, le pecore nere. Tenendo sempre presente la coscienza che si ribella e non accetta. Come dice Robert Antelme, il soggetto non si definisce tanto per la sua libera coscienza, quanto per il suo intelletto soggiogato, costruito per accondiscendere all’obbedienza. La figura dell’individuo, fuori da ogni riferimento sociale e culturale, afferma Onfray, appare piuttosto come unica ed indivisibile, in una sorta di solipsismo, “solus ipse” in virtù della quale ogni individualità è condannata a vivere la sua sola vita, e soltanto quella, a sentire, a sperimentare il positivo come il negativo, per sé sola e da sé sola. Tutto ciò, si conosce si sperimenta da soli, senza potere trasmettere nulla della proprie emozioni ad altri, se non sul piano partecipativo. La politica, sfruttando la debolezza a costruirsi come entità, eccelle come tecnica di integrazione dell’individualità in una logica olistica dove l’atomo perde la sua natura, la sua forza e la sua potenza. Tutti i progetti di società che hanno avuto la pretesa di ricorrere alla scienza, alla positività, all’utilitarismo, hanno posto questo assioma: l’individuo deve essere distrutto e poi riciclato, integrato in una società, in una comunità fornitrice di senso. Tutte le teorie di controllo sociale si basano su questa logica:
• Fine dell’essere indivisibile
• Abbandono del corpo proprio
• Avvento del corpo solidale il solo abilitato ad essere individualità
Una politica che scriva per la monade è ancora da inventare, avvisa Onfray, per ora la politica propone da secoli delle variazioni fatte sul tema di negazione dell’individuo. Esso è percepito come particella e frammento che invoca per essere; la sua sottomissione e la sua soggezione è in nome del tutto che si induce a farla finita con la parte, la quale comunque trionfa come un tutto a sé stante. Tutte le politiche hanno mirato a questa trasmutazione dell’individuo in soggetto: la monarchia in nome del re, i comunisti in virtù del corpo sociale, i fascisti nel nome della patria militarizzata e sana, la nazione omogenea, le chiese in nome di Dio ed il capitalismo in nome del denaro e del mercato.
Il sacrificio del diverso è sempre celebrato in nome di queste ideologie celebranti: Dio, Re, Socialismo, Comunismo, Stato, Patria, Nazione, Società, Razza, Denaro, e altri artifici. In tali mondi, in cui si celebra il culto degli universali, poco spazio resta per l’individuo, che è una quantità trascurabile. Lo si tollera e si celebra solo quando mette la sua esistenza al servizio della causa a cui tutti celebrano il culto. “Dove sono gli individualismi solari e solitari, magici e magnifici?” si chiede Onfray. Una politica libertaria – afferma - è possibile, è una politica che ribalta le prospettive e che sottomette l’economico al politico, pone la politica al servizio dell’etica, fa primeggiare l’etica della convinzione sull’etica della responsabilità; infine riduce le strutture al solo ruolo di macchine al servizio degli individui e non il contrario. La politica libertaria vuole una società aperta, in cui i flussi di circolazione siano liberi per le individualità suscettibili di andare e venire, di associarsi, poi separarsi, di non essere trattenute e contenute da una ragione di autorità che le metterebbe in pericolo; danneggerebbe la loro identità fino ad ucciderla.
L’unità della specie umana rende falso e folle ogni tentativo di scavare differenze tra gli individui, il trasformare leggere crepe in solchi incolmabili: è su questi abissi che si costruiscono i regimi di asservimento e di sfruttamento, nei quali l’unità della specie umana diviene una mostruosità ontologica, per cui gli individui vengono posti in condizione id essere sfruttati o sfruttatori. Il trionfo dell’ideologia della divisione, presuppone la negazione dell’unicità ed unità della specie umana: questo frazionamento artificiale pone la base per gli sfruttamenti ed i regimi disciplinari. Il solo modo di relazionarsi, in tali contesti, rimane la sottomissione, l’assoggettamento; la legge darwiniana della sfruttamento del più forte sul più debole. In questa volontà di gerarchia, in questo desiderio di compartimento, di ripartire e strutturare gli individui, tali regimi si impegnano per svilire, umiliare. Agiscono per trasformare, marchiare e disumanizzare per poi invitare a constatare l’animalità dell’individuo assoggetato e schiantato. Tutto ciò avviene, non solo nei regimi totalitari e nei campi di concentramento, ma anche nelle nuove “cattedrali del dolore” come le fabbriche, le aziende, le periferie, le suburre moderne, e in ogni luogo in cui il capitalismo organizza e gestisce l’esistenza umana.
“Una morale di padroni, associata alla loro potenza, incrocia i desideri, i sogni, le aspirazioni di anime erranti e senza destino. Poveri e proletari condividono con il deportato la privazione, la miseria, l’aasenza di futuro. […] Speranze vietate; diritti per i padroni, doveri per gli schiavi.” Responsabilità della società è evitare che qualcuno sia portato agli estremi nella rivendicazione del proprio bene, in virtù dei suoi diritti naturali. Quali sono questi essenziali diritti naturali? Vivere, o almeno sopravvivere, equivale alla soddisfazione dei bisogni del corpo e della mente nella misura in cui, così appagati, essi autorizzano l’esistenza di un corpo che sia e che resti lontano dalla sofferenza, come pure di un’anima nelle stesse condizioni, purchè essa sia mantenuta nella dignità. Il corpo ha diritto, secondo il principio vitalistico ed edonistico, di tutto ciò che permette il mantenimento della salute, ovvero lo sviluppo ed il recupero della stessa. Ricevere assistenza e cure appropriate e, infine, quando muore ha diritto ad una sepoltura degna di tale nome. Il capitalismo non è assolutamente civilizzato perché ha trovato più di una interdizione o un rifiuto di questi bisogni naturali essenziali, che si riconoscono come diritti naturali. Per mangiare e per bere bisogna pagare, per dormire bisogna pagare, per avere livelli di salute accettabili bisogna pagare delle quote aggiuntive e delle integrazioni, a volte dei servizi non forniti. Per la morte poi la civiltà capitalistica propone uno dei mercati più lucrosi che si immagini. Ecco la gestione sociale del capitalismo in cui i ricchi percorrono tutto il tragitto, riportando molti meno danni di chi ha poco o nulla. Figurarsi se tale società può acconsentire a bisogni spirituali! Le trasgressioni spirituali non sono visibili per cui appaioni meno gravi e spesso si lascia correre, ma se le trasgressioni sul corpo fisico portano alla morte, quelle spirituali portano alle anime morte e agli spiriti corrotti, inariditi, inaciditi, cupi. Sono questi gli abitanti delle terre desolate, afferma Onfray, in cui ritroviamo gli astenzionisti, gli elettori dei partiti protestatari simbolici, e peggio ancora tutti i sostenitori di falangi armate, di fronti nazionali, di aggregazioni fasciste che incitano a politiche di divisione ed oppressione.
Anche le politiche culturali sono divenute festivi e tribali, olistiche e gregarie, semplicistiche e triviali, non tanto provocatorie occasioni di praticare l’arte del ribelle, ma piuttosto l’occasione di assumere il ruolo del consumista soddisfatto. Resta solo l’amicizia come fortuna casuale di affinità elettive e di elezioni singolari, una virtù che manca e che invece dovrebbe celebrare la fine di un secolo che è stato tanto carente di principi comunitari. Queste intersoggettività sfolgoranti rendono ancora possibile l’incontro di opere e di saperi critici, lontani dal pensiero delle mode del tempo, che fanno della cultura un mezzo per impossessarsi del mondo e per cambiarlo, per farlo diverso e migliore. La sconfitta del pensiero non è ancora totale, ed il trionfo della barbarie non è definitivo. Il disegno del pensiero critico libertario consiste nell’opporre la cultura a tutte le forze oscure e gregarie, far rivivere in modo attualizzato lo splendore dell’epoca dei lumi. Nella sua arringa per la specie umana, Onfray richiama al coraggio alla disobbedienza di Antigone, alla definizione di vita di Bichat, per cui essa è l’insieme delle forze che resistono alla morte, in onore all’obiettivo nietzschiano di “Nuocere alla stupidità”.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

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