lunedì 7 luglio 2008

La doppia vita di un mio amico


Io ho un amico da molti anni. L’ho conosciuto quando aveva un negozio di abbigliamento. Io facevo acquisti nel suo negozio, per cui ero soltanto una cliente, ma con il tempo siamo diventati amici. Qualche anno fa, le cose sono cambiate, per cui lui ha lasciato la sua quota di negozio alla sua ex-socia e si è messo a vivere facendo l’ambulante, con un banco al mercatino etnico. Nel contempo ha iniziato a fare volontariato sociale e si è messo ad assistere malati terminali, facendo l’accompagnatore alla morte. Ha accompagnato molti malati di Aids e di tumore, spesso ha dovuto accompagnare anche degli amici e l’esperienza è stata molto dura. Mi ha raccontato di avere accompagnato un suo amico, un musulmano e con lui il gioco si è rovesciato. L’amico musulmano, che chiamerò Karim, gli ha spiegato che la sua morte era nella volontà di Allah, per cui lui andava contento sulla strada che Allah gli aveva indicato. Il mio amico non riusciva a capire come Karim fosse tanto sereno e tranquillo e si sentiva angosciato, quindi Karim ha dovuto consolarlo spiegandogli che il suo dio gli aveva preparato il migliore percorso che era possibile: ne era certo. Quando Karim se n’è andato, il trapasso è stato veloce ed è scivolato via dolcemente. Anche nella morte, mi ha spiegato il mio amico, siamo molto personali perché abbiamo il nostro stile, insomma l’affrontiamo tutti diversamente.
Ad un certo punto, nella vita del mio amico è successo un salto di sincronicità per cui inaspettatamente le cose sono completamente cambiate. Il cambiamento è sopraggiunto sotto forma di incidente: l’hanno investito con un forgone, mentre andava ad aprire il suo banchetto di mercanzie etniche, e la cosa si è messa molto male. All’ospedale i medici gli hanno detto che la sua schiena era molto malridotta e che gli avrebbero prescritto degli analgesici per tenere il dolore a livelli accettabili. Il mio amico ha cominciato a curarsi con analgesici e farmaci antinfiammatori, ma non ne veniva a capo in alcuna maniera. Era ridotto malissimo, si stava intossicando e tutto per tenere sotto controllo una situazione inaccettabile. Anche a livello economico rischiava di rimanere a secco, se si fosse ridotto fisicamente ancor peggio. Come avrebbe potuto lavorare se non si teneva in piedi senza farmaci?
Chi non crede alla sincronicità fa molto male perché un giorno il mio amico legge su una rivista, di un medico ayurvedico che è di passaggio in Italia, in una città vicina, per tenere una conferenza. Senza esitare il mio amico contatta il medico ayurvedico e gli strappa un appuntamento. All’appuntamento il medico ayurvedico, dopo averlo accuratamente visitato accetta di curarlo, ma la sua clinica è in India. Come fare? Il mio amico è sofferente e disperato e non esita affatto: andrà in India.
A questo punto urge una spiegazione metafisica per creare del pathos. L’amico Thorwald Dethlefsen direbbe che, se la malattia è il messaggio dell’anima attraverso il corpo, allora la schiena malridotta del mio amico rivela la mancanza di energia per “tenere” il peso delle sue scelte, segnala una vita che “non si riesce più a tenere”. Ecco quindi che il mio amico parte per l’India e, quando scende dall’aereo ha una folgorazione: è afferrato da una sensazione di struggente malinconia e dal riconoscimento di quella terra. Sente dentro se stesso che è ritornato a casa. Quelle persone, quegli odori, l’aria stessa sono l’aria di casa e lui tra quegli sconosciuti si sente in famiglia.
Il suo soggiorno in India è stato altrettanto sconvolgente. Lui fisicamente potrebbe essere scambiato per il cugino di Kabir Bedi: ha lo sguardo profondo e gli occhi scurissimi, con lunghi capelli intrecciati morbidamente dietro le spalle ed è vestito, da anni, perennemente in bianco. In India, mi racconta, tutti gli parlano in hindi, lo salutano come un santone e lo credono un guru. Lui sempre più spesso deve spiegare che è italiano e non indiano però gli credono a fatica. La cura ayurvedica con lui sta funzionando e non credo proprio che dovrà andare su una sedia a rotelle, come gli aveva detto uno specialista, ventilandolo come futuro fatale. Invece il fato ha giocato diversamente con il mio amico.
Il primo elemento è stato che la clinica è in una piccola città, per cui il mio amico si è ritrovato ad alloggiare in una pensione improvvisata, che consiste nella camera in affitto, con portico e vista sul giardino, di una famiglia del posto. Ora la camera gliela tengono prenotata tutto l’anno, anche quando torna per 6 mesi in Italia.
In clinica ha poi conosciuto un’eccentrica americana più che settantenne – che storpia il suo nome e che parla come Don Lurio - con cui ha iniziato a fare del volontariato in un orfanotrofio della città. In quell’istituto sono ricoverati bambini handicappati che le famiglie hanno abbandonato. Mi ha confessato che giocare con i bambini gli ha ridato una gioia di vivere indicibile. Accompagnare alla morte lo aveva distrutto, quindi se vuole continuare ancora a farlo, deve trovare ossigeno ed i bambini per lui sono stata la risposta, gli hanno ridato energia. Intanto lui e l’eccentrica americana, che ora fa anche la cura ringiovanente, hanno ordinato ad un falegname locale una trentina di lettini di legno da donare ai bambini che dovevano dormire sulle stuoie. Ora devono portare l’obiettivo-cibo a due ciotole di riso al giorno: prima vi era una sola ciotola di cibo. In India ha trovato dei sarti eccezionali, per cui lui disegna dei modelli che poi fa cucire e che rivende in Italia. Adesso lui è felice perché fa una doppia vita: una in Italia dove sta per 6 mesi e dove ancora vive sua madre, che è una donna meravigliosa e una madre che tutti gli vorremmo rubare. L’altra sua vita è l’India dove ora si cura e vive per 6 mesi, ma dove spera tanto di potersi trasferire per ritornare finalmente a casa.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

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