sabato 6 settembre 2008

A Vostra Eccellenza, sulla mala qualità delli cingani erranti…


Emerge una grande preoccupazione nell’uomo quando non riesce a catalogare con quale sorta di gente s’imbatte. Di fronte all’incognito, allo sconosciuto, all’”altro da sé” emerge allora la forza dello stereotipo, ed entro queste stereotipìe si cerca di fare confluire delle specificità caratteriali, che si pensano e/o s’immaginano come vere ed autentiche. Si creano così delle categorie non ben definibili, in cui i tratti costitutivi sono applicabili a generi diversi perciò intercambiabili, in una sorta di passepartout politico, culturale e ideologico. In preda al timore dell’ignoto, si diviene come confessori o inquisitori medievali, pronti ad impugnare tutte le pratiche punitive e repressive che si possono reperire, al fine di delineare, controllare ed esorcizzare l’elemento alieno. Queste utili riflessioni mi sono scaturite dalla lettura di un saggio critico dedicato ad alcuni bandi, che la Serenissima Repubblica di Venezia emanò dal 1549 al 1588, contro i cingani, gli tzigani, gli zingari cioè i rom. Da queste fonti, emerge una sapiente gestione politica dell’immagine (dalla forte connotazione antropologico-criminale) del deviante e del diverso, che mi sembra di grande modernità ed attualità.
Allo stereotipo tzigano, i bandi attribuiscono i tratti di genti erranti, truffaldini, ingannatori, dediti alla chiromanzia e ad altre pratiche di latrocinio. Per questo il 21 dicembre 1549, il Senato considerato il “molto danno e non poco dispiacere” provocato ai sudditi dalla “prattica de i cingani erranti, che vanno alloggiando in campagna, et nelle ville del Stato Nostro” concede ai rettori di dette terre, 10 giorni di tempo per mandare dette persone, “fuora dalli Territorii a loro commessi.” Erranti e vagabondi sono queste genti, neppure criminali, ma per i cingani questo basta per renderli indesiderabili nei domini veneziani. Si invitano – come in tante grida cinque-seicentesche – all’arbitrio dell’”Eccellenze Vostre” di trovare il giusto rimedio perché tale pratica possa estirparsi, cioè del transito degli indesiderabili sui territori veneti, sia pure nel frangente del solo transito e non della permanenza di essi. Molta severità s’invoca anche nella concessione del transito, affinchè non si conceda l’accesso a gente di mala qualità che causano molestie, danni e molti altri disturbi, con “grande mormorazione dei sudditi” veneti. Laddove qualche cancelliere usasse metodi di beneficio con dette persone, sia privato della sua Cancelleria a causa di tali licenze, e gli sia impedito in perpetuo di esercitare alcun ufficio “nei Territorii dell’Eccellenze Vostre.”
La parte sanzionatoria e punitiva non può escludere una figura criminale, per cui, che tali genti che vanno transitando e vagando siano fatti uscire “subito et immediate” e che i “clandestini” siano posti al “remo nelle galee nostre, dove abbino a servire alla Catena” almeno per 10 anni. Si decidono anche delle taglie da pagare per ogni cingano che venga consegnato alla giustizia, come pure che i “cingani così huomeni, come femine” ritrovati sui territori veneziani possano essere “impune amazati” e che gli esecutori di tali delitti non siano accusati di alcun reato.
Dalla grida veneta emerge la moderna costruzione di misure punitive costruite contro figure anomale, sfuggenti e perciò difficilmente controllabili. La costruzione è magistrale e definita a tavolino, poiché la società del tempo ammetteva pienamente la figura del bravo girovago - il Griso di manzoniana memoria - la cui utilità sociale veniva riconosciuta tramite l’impunità, che derivavano dal servizio prestato all’establishment come guardia del corpo. Tale impunità era certa, anche se quei personaggi avevano perlopiù, trascorsi di banditismo e criminalità ben conosciuti alla giustizia.
Nel 1588 la Serenissima pubblica una nuova grida sui cingani, preludendo però tali norme, con un incipit in cui si denunciano dei presunti “complici,” che tengono poco conto della giustizia, e che offrono aiuto e riparo a detti cingani, diventando così complici dei loro latrocini, a tutto svantaggio delle “povere genti” che sono vittime di tali malfattori. Tali fiancheggiatori devono essere messi alla galea almeno per 3 anni, legati ai remi con la catena, ad arbitrio, da parte del rettore, di tenere conto della “qualità della persona” e rendere la pena meno severa. Quest’ultima eccezione equivale a dare un implicito consenso per le protezioni altolocate per le quali, ad esempio pagare una multa, poteva costituire un fastidio impercettibile.
Strani fenomeni, in cui le figure criminali e devianti non sono assolutamente riconosciute o riconoscibili con caratteri propri, cioè con una fattispecie compiuta e distinguibile, ma vengono identificate sulla base di stereotipi culturali a cui vanno negate anche le garanzie della gente comune. A tali figure moleste non vanno concessi dei salvacondotti, anche nel caso che possedessero dei requisiti che glieli potesse far rivendicare; tutto ciò in nome di una loro “particolarità” a priori. In questa turba di persone, mal viventi e vaganti, si ravvisa una violenza tale da incutere paura, in virtù del loro numero e della loro forza implicita. Venezia, tramite il suo Senato, si preoccupa per la pace e la tranquillità “delli boni e quieti” cittadini di proibire di uscire armati ed in numero di più di 4 persone, ovvero mette al bando tutte le “comitive criminali.” Con la dimensione collettiva, si opera una maggiore sensazione di intento criminale e di premeditata azione di offensività ai danni dell’ordine sociale. Si mette in atto il timore dell’orda barbarica e dei flussi incontrollabili, per creare una retorica del pericolo e del timore sociale, contro le caratteristiche distinguibili di tali genti”infesti e vaganti”: cioè genti vagabonde, pitocchi, mendicanti, prostituti, ubriachi e altre persone sospette a causa di tali condotte di vita. La pratica del bando cinquecentesco, sempre comminato “ad personam” viene sovvertita, poichè esso diventa un provvedimento collettivo, contro una categoria che costituisce il flagello dei buoni cittadini. Essi hanno lo status di “erranti, vagabondi, mal viventi” per cui sono in definitiva “altro” rispetto i comuni cittadini. Sono forse “foresti” , ma dei forestieri dai tratti esotici, dai modi animaleschi, violenti, dediti al furto e all’inganno, mal viventi che sbarcano il lunario con espedienti truffaldini. Si offre il trionfo delle stereotipo impreciso ed indefinito, ma estremamente funzionale, poiché semplifica e si adatta all’immagine di una paura serpeggiante ed indefinita, quindi facilmente plasmabile e rimodellabile. Il bando è la risorsa giuridica migliore per relegare e controllare gli incontrollabili e per non dovere pensare il paradosso delle loro anomalìe. Esso viene comminato con una sfumatura negativi dei confini, poiché il bandito viene scacciato “altrove da qua” e comunque fuori dai confini ordinari dello Stato. Se poi la vita al bando presuppone un’esistenza di transiti e un potere andare e venire, di essere presenti provvisoriamente anche se non persistentemente, anche a questo la grida pone rimedio imponendo forti limiti anche al diritto di transito, imponendo un fuori da qua, un altrove di queste genti rispetti ai confini della Repubblica. Ed io mi chiedo dove sia “l’altrove” di colui che viene scacciato da tutti.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

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