venerdì 24 luglio 2009

Semi per la pace e la bellezza


Il neuroscienziato Roger Sperry, premio Nobel e docente al California Institute of Technology (Caltech) dal 1954 fino alla morte nel 1994, teorizzò l’esistenza di una facoltà di “controllo dall’alto in basso degli eventi mentali sugli eventi neuronali inferiori”. Suggeriva che gli stati mentali potessero agire direttamente su quelli cerebrali fino a influenzare l’attività elettrochimica dei neuroni. Sperry teorizzò che la coscienza non potesse esistere senza cervello, e che “le forze mentali” non fossero “forze soprannaturali indipendenti dai meccanismi cerebrali”, ma fossero forze “inseparabilmente legate alla struttura cerebrale e alla sua organizzazione funzionale".

Sperry concluse che l’attività mentale “di livello superiore” potesse agire in modo causale sul “livello inferiore” dei neuroni e delle sinapsi, e che il potere della mente fosse in grado di modificarne la trama. Naturalmente fu ferocemente attaccato, sebbene le ultime scoperte dei primi anni del nuovo millennio abbiano dimostrato come lui fosse in anticipo rispetto ai suoi tempi.

E’ vero che è un essere fortunato colui che ha imparato nell’infanzia a controllare equilibratamente le sue emozioni, ma non siamo gli schiavi della nostra educazione, perciò possiamo sempre modificare e migliorare il controllo dei nostri sentimenti. Verso la fine degli anni ‘80, il neuropsichiatra Jeffrey Schwartz dell’Università di Los Angeles, dimostrò che i segnali in grado di modificare il cervello potessero arrivare non solo dal mondo esterno, ma anche dalla mente stessa. Schwartz e il collega Lewis Baxter avevano organizzato un gruppo di terapia comportamentale per lo studio e la cura del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) una patologia in cui i pazienti sono perseguitati da pensieri invadenti e molesti (le ossessioni) che li spingono prepotentemente a comportarsi in modo irrazionale con gesti ripetitivi simili a rituali (le compulsioni o coazioni).

Fino alla metà degli anni ‘70, gli psichiatri consideravano il DOC come refrattario alle terapie, ed in seguito venivano somministrati degli antidepressivi che aiutavano a diminuirne i sintomi. Negli stessi anni a Londra, uno psicologo britannico aveva sviluppato la prima efficace terapia comportamentale della malattia, spingendo i malati ad affrontare le loro paure in modo controllato tramite l’esposizione volontaria alla causa della loro ansia.

Verso la fine degli anni ‘80, Jeffrey Schwartz avanzò alla terapia comportamentale inglese un’accusa di crudeltà, affermando di volere un’alternativa più umana e più efficace. Schwartz, che era buddista praticante, cominciò a interessarsi al potenziale terapeutico della via della “presenza mentale” o satipatthana, consiste nell’osservare le proprie esperienze interiori con piena consapevolezza, senza giudicarle. Nella pratica, occorre collocarsi come al di fuori della propria mente e osservare lo spontaneo affioramento di pensieri e sentimenti, come se fossero di un’altra persona.

Quello stato, secondo il monaco buddista Nyanaponika Thera, è “la chiara e unica coscienza di quello che oggettivamente accade a noi, e in noi, nei successivi momenti della percezione. Incamminarsi sulla via della presenza mentale significa concentrarsi solo sui nudi fatti di una percezione, così come si presenta attraverso i cinque sensi fisici o attraverso la mente … senza reagire con azioni, discorsi o un commento mentale riferito a se stessi (piacere, dispiacere, eccetera), un giudizio o una riflessione.”

Schwartz dichiarò poi: “Pensavo che se fossi riuscito a fare in modo che i pazienti provassero i sintomi del DOC senza reagire emotivamente al disagio, rendendosi conto che anche il più viscerale impulso del DOC non è altro se non la manifestazione di un difetto funzionale del cervello, senza alcuna corrispondenza nella realtà, gli effetti terapeutici sarebbero stati spettacolari. In questo caso, la terapia cognitiva basata sulla presenza mentale avrebbe avuto successo dove i farmaci, le psicoterapie tradizionali e la prevenzione della risposta avevano fallito.” La pratica della presenza mentale, a suo avviso, poteva rendere il paziente conscio della natura della sua ossessione e perciò più capace di concentrarsi su altre cose.

Le moderne tecniche di visualizzazione hanno rivelato che il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dall’iperattività di due regioni cerebrali in particolare: la corteccia orbito-frontale e il corpo striato. La corteccia orbito-frontale, ripiegata sotto la parte anteriore del cervello, sembrerebbe destinata al controllo di ciò che è fuori posto, mentre la seconda struttura soggetta a iperattività, il corpo striato, è annidato nella profondità del cervello, poco più avanti rispetto alle orecchie. Quest'ultimo riceve gli input da altre regioni, come la corteccia orbitofrontale e l’amigdala, legate agli stati emotivi dell’ansia e della paura. Nell’insieme, il circuito cerebrale che include la corteccia orbitofrontale e lo striato è soprannominato "circuito della preoccupazione" ed esso nella DOC agisce freneticamente ed incontrollatamente.

Nell’esperimento di Schwartz iniziato nel 1987, furono effettuate scansioni TEP o Tomografia a Emissione di Positroni su 18 pazienti affetti da DOC, controllati prima e dopo 10 settimane di terapia basata sulla presenza mentale, senza l'uso di terapie farmacologiche di supporto. I pazienti si sottoponevano alla terapia e i ricercatori controllavano i loro progressi utilizzando la TEP, così Schwartz mostrava ai pazienti le scansioni, per sottolineare come a provocare i loro sintomi fosse una disfunzione dei circuiti cerebrali.

Tra loro 12 pazienti migliorarono in misura significativa e in quei pazienti, le scansioni TEP dopo la terapia mostrarono che l’attività nella corteccia orbitofrontale, la chiave di volta del circuito del DOC, si era ridotta in modo sorprendente rispetto all’esame fatto prima della terapia. Concluse Schwartz: “La terapia aveva modificato il metabolismo del circuito del DOC. Questa fu la prima ricerca che dimostrò che una terapia cognitiva-comportamentale è in grado di cambiare sistematicamente la chimica alterata di uno specifico circuito cerebrale.” I cambiamenti cerebrali che venivano mostrati erano “un’indicazione importante di come uno sforzo volontario, consapevole, possa modificare il funzionamento cerebrale, e di come simili mutamenti cerebrali auto-orientati, la neuroplasticità, appartengano alla genuina realtà … L’azione mentale può modificare la chimica cerebrale di un paziente con DOC. La mente può cambiare il cervello”.

Sebbene l’esperimento di Jeffrey Schwartz sia diventato una pietra miliare nello studio del rapporto mente-cervello, la prevalenza di una mentalità antiquata favorisce la diffidenza riguardo all’uso di terapie dolci e non farmacologiche per la cura dei disagi mentali ed esistenziali, e le industrie farmaceutiche spingono per la diffusione di pillole della felicità come unico rimedio ai disagi della modernità. Il calcolo di enormi interessi economici soffoca la verità che la nostra coscienza ha una grandissima influenza sul modo con cui il cervello si forma, e che le nostre emozioni possono veramente trasformare il nostro cervello e il nostro modo di pensare.

Nella cultura occidentale, erroneamente ritenuta avanzata, tendiamo a rimuovere la verità che la saggezza orientale riconosce da molto tempo, e cioè che le emozioni, gli stati inconsci dell’organismo, diventano dei sentimenti cioè delle percezioni coscienti della realtà. Preferiamo pensare che i nostri stati di malessere siano delle disfunzioni da eliminare con l’uso di una pasticca, preferiamo crederci delle macchine pensanti che possono essere riparate con la chimica della felicità, e non degli individui che possono riprogrammarsi autonomamente e volontariamente.

In questo modo, si imprime nella mente delle persone, il pensiero che siamo condannati al destino di non avere alcun potere e alcun arbitrio personale. Vogliono farci ignorare la possibilità di riprogrammare la nostra vita con l’impegno e con la determinazione, ci viene taciuto che noi possiamo essere i demiurghi di noi stessi. Finiamo così per negare che lo spirito viene plasmato dalle esperienze, così non crediamo che “ogni volta che percepiamo qualcosa di pacifico e di bello, annaffiamo i semi per la pace e la bellezza in noi ... mentre al tempo stesso non vengono innaffiati altri semi, come la paura e il dolore” come insegna il maestro zen vietnamita Thich Nhat Hanh.
Buona erranza
Sharatan

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