domenica 9 aprile 2017

La nascita della coscienza



“La verità non può essere creata, ma percepita.”
(Paramhansa Yogananda)

Uno dei più grandi enigmi della scienza è il rapporto tra mente e cervello ovvero il rapporto tra lo spirito e il corpo. Nel tempo sono state avanzate svariate ipotesi sul problema della coscienza e sulla sua origine durante l’evoluzione. E, dopo il 1859, la prospettiva degli studiosi è cambiata in modo radicale, perché si sono diffuse le idee di Darwin e Wallace sulla selezione naturale. Ma se per alcuni, la teoria dell’evoluzione può spiegare l’anatomia della specie, essa può spiegare anche una funzione complessa come la coscienza?

Per lo psicologo americano, Julian Jaynes, questo è possibile come afferma nell’affascinante ipotesi che prende le mosse dal darwinismo per sostenere l’evoluzione della coscienza. Jaynes mette in evidenza che, nel 1859, alla fine de “L’origine della specie” Darwin sottintendeva che Dio ha creato sia mente che corpo negli antichi organismi primitivi, perciò mente e corpo evolvono parallelamente. Il tempo in cui è nato il mondo interiore e la coscienza corrisponde, secondo Jaynes, al momento dello sviluppo del linguaggio che ha prodotto la coscienza.

Jaynes suggerisce una datazione che fissa al tardo Pleistocene cioè nell’era di Neanderthal, per il fatto che le necessità imposte dalla caccia ai grandi animali durante l’ultima era glaciale rende plausibile che il linguaggio sorgesse allora. In quel tempo è avvenuto anche uno straordinario sviluppo di specifiche aree del cervello che sono coinvolte nel linguaggio, e uno straordinario sviluppo degli utensili, come ci dimostrano gli scavi archeologici.

Sappiamo, dice Jaynes, che “il linguaggio non è solo comunicazione, ma anche ciò che, agendo come un organo di percezione, orienta e fissa l’attenzione su attività e oggetti particolari rendendo possibile la creazione di utensili avanzati.” La stima dell’età massima del linguaggio è di 50.000 anni a.C. e, in questo lasso di tempo, deve aver preso corpo anche la coscienza. Verso il 3.000 a.C., gli uomini appresero l’arte della scrittura, per cui possiamo studiare gli scritti più antichi per capire quando appare un “io narrante” o un significato di ordine psicologico.

Dall’analisi emerge che il testo più adatto è l’Iliade. Per Jaynes, quelle vicende furono narrate da ignoti aedi fino dal 1230 a.C., e poi furono trascritte verso il 900-850 a.C., forse da Omero. La cosa interessante è il fatto che nel poema non c’è traccia di un io personale. Nessun uomo si ferma a riflettere sul senso di ciò che fa, nessun personaggio ha coscienza della sua presenza nel mondo. Ogni volta che un uomo deve prendere una decisione, ecco che entra in azione una voce che gli dice quello che deve fare.

Le voci che guidano gli uomini vengono dagli dei, perché nella mente umana esistono due camere. In una camera abita il dio che ordina invece nell’altra abita l’uomo che obbedisce alla voce del dio. Una forma mentale del genere, dice Jaynes, si può definire bicamerale, per l’assonanza con l’assemblea legislativa parlamentare. La mente dell'uomo di quel tempo era divisa in due parti: una parte era quella decisionale mentre l’altra parte era esecutiva. L’uomo poteva fare, ma non decideva cosa doveva fare.

Nella sua vita ordinaria viveva come un uomo normale ma, se sorgeva un problema, giungeva il dio che lo guidava. E lui obbediva. Ma perché era nata questa mente bicamerale? Intorno al 9.000 a.C., si erano sviluppate la comunità agricole che andarono a sostituire la pratica della caccia, perciò la voce del dio serviva per garantire l’ordine sociale delle grandi comunità agricole che si raggruppavano. Nasceva così una civiltà bicamerale e la teoria di Jaynes è che “l’allucinazione verbale sia evoluta durante il Neanderthal insieme al linguaggio per rafforzare l’attenzione e la perseveranza nell’azione.”

Gli uomini dotati di questa arcaica mente formavano delle società ordinate in rigide gerarchie secondo le regole organizzative definite dalla mente direttiva. I regni bicamerali erano delle teocrazie gerarchiche che avevano a capo un dio oppure un suo idolo. A volte erano guidate da un uomo di natura divina che prestava tutto il suo essere alla voce. Civiltà di questo tipo sorsero nel Vicino Oriente, dall’Egitto al Kush nel Sudan meridionale, fino all’Africa centrale. Verso nord si svilupparono anche in Anatolia, Creta, Grecia, in India e nella Russia meridionale, nella penisola malese arrivando fino in Cina.

In Mesoamerica vediamo svilupparsi la civiltà azteca e l’avvento della civiltà Inca la cui mente bicamerale subì l’urto devastatore del conquistatori europei. Ma la civiltà in cui si vede maggiormente la struttura della mente bicamerale è quella della Mesopotamia dove, a capo dello stato c’era una statua di legno con gli occhi fatti con gemme preziose. Questa statua era fatta di legno leggero per essere più facilmente trasportata, era riccamente abbigliata e profumata e veniva fatta sedere dietro un gran tavolo nell’ampia sala in cima alla ziggurat. Quello che noi chiamiamo “il re” era, in realtà, il primo intendente del dio.

Ci sono molte prove di testi scritte, nella struttura dei nomi personali e nei sigilli ritrovati, che ogni uomo aveva il suo dio personale. In Mesopotamia era “Ili” e per gli ebrei era “El” oppure “Elohim,” invece in Egitto veniva chiamato “ka.” Ma un sistema di questo tipo era precario, per cui le civiltà bicamerali andarono in crisi, come avvenne per i Maya che abbandonarono le loro città. Le Mesopotamia restò più stabile fino a 1.400 a.C.

Dopo questa data, gli dei non furono più raffigurati nei dipinti e, in alcuni casi, si videro figure di rei inginocchiati davanti a un trono vuoto. Nel poema epico l’Epos di Tumulti-Ninurta, per la prima volta, si parla di uomini che sono abbandonati dagli dei. Le ragioni per cui accade questo sono molte, tra cui vanno considerate le varie catastrofi naturali come l’eruzione sull’isola di Tera e le migrazioni dei popoli che abbandonarono i regni bicamerali che furono distrutti.

Anche la scrittura, secondo Jaynes, fu responsabile della nascita della coscienza, perché lo scritto indebolì il predominio dell'udito a vantaggio delle funzioni visive. Così nasceva l’uomo dotato di una forma di proto-coscienza. Dopo la perdita della mente bicamerale, si spensero le voci che dicevano all’uomo cosa doveva fare, ma vennero in auge vari metodi per tornare a udire i messaggi e le direttive degli dei. Vennero in uso molti metodi di divinazione e si diffusero pratiche come il lancio delle sorti, il lancio dei dadi, la lettura dei movimenti del fumo oppure delle forme disegnate dall’olio nell’acqua.

I sacerdoti iniziarono a celebrare i sacrifici animali e traevano delle previsioni dall’esame delle loro viscere. Quindi sorse la pratica dell’astrologia di cui c’è testimonianza anche nella scrittura cuneiforme. Se valutiamo la civiltà greca, scrive Jaynes, vediamo la storia della mente bicamerale nell’Iliade, l’Odissea e in tutta la poesia elegiaca dei due secoli seguenti. Poi Solone che è vissuto verso il 600 a.C., che invitò l’uomo al “Conosci te stesso!” che è attribuito all’oracolo di Delfi.

La mente bicamerale fu vinta dalla coscienza, perché la struttura cerebrale si modificò. Il linguaggio era posto in un solo emisfero (area di Wernicke destra) per lasciare l’altro emisfero libero di ascoltare la voce degli dei. Il dio parlava nella regione dell’emisfero destro ed era ascoltato con l’emisfero sinistro. Jaynes, a sostegno della sua idea cita la tendenza di entrambi gli emisferi a capire il linguaggio mentre solo l’emisfero sinistro è normalmente in grado di parlare.

La presenza di vestigia, nell’area di Wernicke, di un’attività cerebrale simile alle voci degli dei e anche che, in certe condizioni, i due emisferi cerebrali sono in grado di agire come due persone indipendenti come accadeva tra l’uomo bicamerale e il suo dio. Ora sappiamo che il cervello può essere modificato dall’ambiente più di quanto crediamo per cui è probabile che l’uomo bicamerale sia divenuto cosciente in virtù dell’apprendimento e della cultura.

Una prova della mente bicamerale teorizzata da Julian Jaynes proviene anche da Plutarco che, nel famoso dialogo delfico, “Il tramonto degli oracoli”, racconta che l’egiziano Tamo, pilota di una nave mercantile, mentre navigava nel mare Adriatico, sentì una potente voce che gli diceva che: «Il grande dio Pan è morto!» E il fatto era così straordinario che fu riferito all’imperatore Tiberio. In effetti, la voce era venuta ad annunciare che la morte del dio Pan segnava la fine dell’età classica.

Buona erranza
Sharatan

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